Tra prostituzione, sequestri e pandillas nella città più pericolosa al mondo
Mi chiamo Harry Evelio e sono nato nel febbrario 1989 a El Progreso, Honduras, ma ho sempre abitato a San Pedro Sula, trenta chilometri di distanza e circa mezzo milione di abitanti.
Ho vissuto la mia sessualità allo scoperto, per quel poco che ricordi. Ho partecipato ad almeno un gay pride, lo so perché mi è rimasta una foto. Solevo recarmi un un locale gay il fine settimana, di cui non rammento il nome, forse si chiamava Olimpos. Mi divertivo e arrotondavo con la prostituzione, concedendomi a uomini facoltosi.
I ricordi... parte della mia memoria è completamente cancellata e i fatti che sto per raccontare riveleranno perché.

Circa due anni fa ho cominciato a lavorare per il Colectivo Unidad Color Rosa, l'unica organizzazione che difende i diritti di gay e transessuali a San Pedro Sula.
Il mio ruolo era quello di incontrare la popolazione LGBT del luogo, anche casa per casa con visite domiciliari, per istruire e sensibilizzare sul sesso sicuro e informare sulle malattie sessualmente trasmissibili.
Mi muovevo solo o scortato da colleghi tra San Pedro Sula, El Progreso, Choloma e Villanueva. Nessun luogo è sicuro in Honduras. Cammini per strada e in pochi secondi secondi ti puoi trovare nel quartiere sbagliato al momento sbagliato.
Mi era capitato varie volte. Di imbattermi nei pandilleros. Quelli che non hanno nome. Bestie senza scrupoli che ti puntano la pistola in faccia, ti prendono a calci e ti torturano, solo perché senza saperlo sei entrato nel loro territorio.
Qui lo Stato non esiste, non ti può proteggere.
Ero disposto anche a questo per il mio lavoro, a tornare a casa con i graffi, i lividi e le ammaccature.
Finché non abbiamo incrociato quei dieci uomini.
Mi trovavo con sette colleghi nel quartiere Sunseri di San Pedro Sula, quando siamo stati accerchiati. Erano armati fino ai denti e facevano parte della Mara Salvatrucha o MS-13.
Era ed è ancora una delle bande più spietate non solo in Honduras, ma in tutto il Latinoamerica.
Ci hanno picchiati e legati. Ci hanno portati in una casa, dove ci hanno buttati sul pavimento come sacchi di rifiuti senza smettere mai di insultarci, di urlarci "froci" e "maricones". Poi ci hanno drogati. E da lì in poi, ognuno di noi è rimasto solo. Solo con il proprio dolore.
É qui che la mia memoria comincia a vacillare. Ho completamente perso il senso del tempo. Ora, grazie ad amici e conoscenti, so di essere scomparso per quattro giorni. Quattro giorni disteso sul pavimento senza mangiare, con i sensi assopiti e la testa svuotata da chissà quale droga, forse Burundanga. Ho perso gran parte dei miei ricordi. Ma rammento ancora le cose belle. Il mio nome, il mio lavoro, mia madre, i miei amici.
E le cose brutte.
Non so quante volte sia stato violentato. Troppe per contarle, se anche fossi stato in grado di contare. Questi pandilleros non hanno un'anima. Sono corpi. E anche io dovevo diventare tale.
Dopo quattro giorni semplicemente ci hanno rilasciati. Ma non eravamo liberi. Ormai gli appartenevamo, eravamo diventati una loro proprietà. Avremmo dovuto tramutarci in corrieri e distribuire la droga nei loro quartieri. Avevamo una settimana per decidere, altrimenti ci avrebbero ammazzati. Al sesto giorno, i miei genitori hanno speso tutti i loro risparmi per comprarmi un volo diretto in Spagna. E sono andato.
Madrid, la capitale.
Uscito dall'aeroporto, mi sono recato in centro e sono rimasto qualche giorno in un ostello a riordinare quei pochi pensieri che mi erano rimasti. Poi, grazie al CEAR (commissione spagnola di aiuto al rifugiato), sono entrato in comunità e ho fatto richiesta per la protezione internazionale.
Ora ho la speranza di un futuro e di poter ricostruire pezzo per pezzo la mia vita in questo nuovo paese.

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